Avevo più o meno due anni e mezzo quando entrai in cucina caracollando, mi aggrappai alla tovaglia per non cadere e, scivolando a terra, trascinai insieme a me la tovaglia, le tazze della colazione e la caffettiera napoletana che mia madre aveva appena capovolto al centro della tavola. Porto ancora sul petto il segno di quella ustione da acqua bollente, che su un corpo così piccolo era molto estesa e che oggi, su un torace adulto, resta una traccia di memoria discreta ma profonda. Ho avuto tempo per familiarizzarci e ora non ci bado più, ma quando ero bambino mi rifiutavo di andare in spiaggia per non dover esibire una parte di me che mi metteva a disagio. Nell’adolescenza, invece, scherzavo sulla cicatrice prima ancora che qualcuno mi chiedesse come me la fossi procurata: una granata al fronte, dicevo, o spiritosaggini del genere. Dei circa due metri quadri di pelle che posseggo, per un tempo non trascurabile della mia vita mi sono preoccupato solo di un fazzoletto di venti centimetri di lato, non conforme al modello di epidermide che avevo in mente. E il resto?

Chissà che oggi, nel dedicare la XVIII edizione di Torino Spiritualità a esplorare la superficiale profondità della pelle, non ci sia in me l’impulso a risarcire con la dovuta attenzione le decine e decine di centimetri di tessuto che, diligentemente, hanno marcato il mio punto di inizio e di fine rispetto al mondo, e che a lungo ho trascurato.

Sia come sia, quel che è certo è che l’epidermide rivela moltissimo di ciò che siamo: è archivio intimo, mappa e memoria, al punto che ogni traccia sulla nostra pelle – una ruga, un neo, un’impronta digitale, una cicatrice, un tatuaggio – è la marca di un’individualità, il palinsesto visibile che ci portiamo addosso. L’immagine scelta quest’anno, un’antica roccia lavica segnata dalle tracce di un contatto improbabile e poetico, intende alludere proprio a questa infinita ricchezza di incontri di cui la nostra epidermide è testimone e soglia: alcuni effimeri, altri durevoli come fiori cristallizzati per sempre nella pietra.

Ma nel suo essere soglia, la pelle rinvia anche all’interiorità che nasconde, come dice bene la nota frase del poeta Paul Valèry secondo cui non ci sarebbe nulla, nell’uomo, di più profondo della pelle: è nel confine estremo che scopriamo ciò che siamo, perché è lì sulla superficie che le cose si espongono alla luce. Anche quelle che siamo soliti definire “dello spirito”.

Sul finire degli anni Quaranta Curzio Malaparte scriveva: «Oggi si soffre e si fa soffrire, si uccide e si muore, si compiono cose meravigliose e cose orrende, non già per salvare la propria anima, ma per salvare la propria pelle. Si crede di lottare e di soffrire per la propria anima, ma in realtà si lotta e si soffre per la propria pelle. […] Non c’è che la pelle che conta, ormai». Cambiano le guerre, mutano le circostanze ma il concetto mantiene la sua attualità. Non c’è che la pelle, la pelle tesa e perfetta che non ne vuole sapere di invecchiare, la pelle violata dalla ferita e la pelle sintetica, la pelle sottile, spessa, arrossata, ornata, tatuata, ustionata, la pelle specchiante degli ausili touch, la pelle coperta, quella impudica, quella che cambia, la pelle degli altri, la pelle uguale, la pelle diversa. Per questo è importante ragionarci su, e vale la pena farlo anche puntando a un orizzonte spirituale in cui “salvarsi la pelle” e “salvarsi l’anima” siano lembi che possono infine toccarsi.

 

Armando Buonaiuto
Curatore Torino Spiritualità